Ciò che affascina nei quadri di Hopper è il taglio fotografico delle sue inquadrature: atmosfere struggenti e poetiche ispiratrici per molti autori, fra i quali Luca Campigotto, Gregory Crewdson, Franco Fontana e Richard Tuschman
Narrazione di solitudini, silenzi, assenze.
A guardare oggi i racconti su tela di Edward Hopper, maestro del realismo americano della prima metà del Novecento, ci si rende conto di quanto siano più che mai attuali quelle sue atmosfere tanto struggenti quanto poetiche.
Che siano interni domestici, scenografie urbane o certi paesaggi di Cape Cod, poco importa. Hopper riesce a comunicare un forte senso di inquietudine o di calma interiore che si riflettono negli sguardi di donne e uomini sospesi tra la volontà di vivere e l’incapacità di esistere, in attesa di qualcosa che sembra tardi ad arrivare. Esattamente come siamo tutti noi adesso, tra voglia di andare avanti, lockdown, incomunicabilità e solitudine.
Ma ciò che più affascina nei quadri di Hopper è il taglio fotografico delle sue inquadrature, laddove luci a volte taglienti e fredde, altre soffuse e morbide, definiscono composizioni geometrizzanti in cui gli elementi scenici si stagliano come su un grande palco davanti a una platea vuota, e l’angolatura spesso diagonale contribuisce a creare un senso di artificialità, dando la sensazione di un’istantanea fotografica.
Un occhio fotografico, quello di Edward Hopper, che lo ha portato a divenire un’imprescindibile icona dell’arte contemporanea e ispirazione per moltissimi artisti. Tra di essi i fotografi Luca Campigotto, Gregory Crewdson, Franco Fontana e Richard Tuschman, protagonisti della mostra “Hopperiana” – fruibile in modalità virtuale dal 1° dicembre 2020 al 28 febbraio 2021 su Photology Online Gallery http://www.photology.com/photology-online-gallery.
Terzo capitolo che segue le mostre di Milano (2014) e Noto (2016), “Hopperiana” vuole narrare la malinconia e la solitudine di un’intera civiltà che, giunta al massimo del suo sviluppo tecnologico ed economico, è stata costretta dagli eventi a porre un freno al suo inarrestabile avanzamento e a fermarsi per una riflessione introspettiva: un racconto visivo della contemporaneità, con i suoi non-luoghi abitati da figure a metà tra l’uomo e il manichino e le sue atmosfere solitarie e pacate.
Ognuno degli autori in mostra adotta il filtro visivo del pittore e lo rielabora in maniera personale, trasformandolo in opere fotografiche fortemente destabilizzanti.
Così, come nei dipinti hopperiani, nei lavori dei quattro autori regna il silenzio: la scena è spesso deserta, di rado è presente più di una figura umana, e quando ciò accade tra i soggetti sembra emergere una drammatica estraneità e incomunicabilità.
I fotografi costruiscono i propri “set” ricreando lo stesso pathos che è pregnante nei lavori di Hopper. Esempio lampante ne sono le figure femminili: cariche di un forte significato simbolico, sono rappresentate assorte nei propri pensieri, con lo sguardo distaccato e fisso nel vuoto.
Eteree e inaccessibili, rappresentano quella società in cui oggigiorno è difficile trovare il proprio posto, la stessa società in cui – a causa di una pandemia globale trasformatasi ben presto in una pandemia “sociale”, dove il contatto umano da fattore di benessere si è trasformato in fattore divisivo e potenzialmente letale – il distanziamento sociale non è più una scelta ma un’imposizione, come se la coltre di surrealtà presente nelle opere di Hopper, Campigotto, Crewdson, Fontana e Tuschman si fosse posata sul presente di ognuno di noi.